Grazie alla mia ricerca e al mio viaggiare, ho conosciuto persone veramente speciali. Giunto a questo punto del mio percorso, credo che il vero maestro non abbia bisogno di sentirsi tale, ma solo di insegnare, di trasmettere tutte le conoscenze che ha acquisito e sviluppato, permettendo agli allievi di proseguire nella propria ricerca ed evoluzione, liberi da ogni forma di attaccamento al proprio ego. E Don Leandro era così: è e resterà sempre il Mio Maestro.
Lo conobbi all’età di 22 anni. Dolorante dopo un’operazione al menisco sinistro, cercavo aiuto. Mi parlarono di lui, un sacerdote cattolico che si dedicava a curare le persone con una forma di medicina manuale naturale. All’epoca aveva una sessantina d’anni. Era un uomo grande e grosso, di campagna, capelli bianchi e occhiali: non lasciava trasparire molto della sua personalità. Era circondato da pazienti e da alcuni assistenti.
Iniziò a trattarmi da “tiranervi”, mestiere che oggigiorno sta scomparendo, tramandato di famiglia in famiglia, e che non tutti gli appartenenti alla famiglia potevano praticare, giacché era necessaria la capacità di percepire quel “quid” che per i più era impercettibile.
Da quel che dicevano le persone in attesa, pareva che Don Leandro sapesse il fatto suo. Uomo di poche parole, dal tocco forte ma gentile, iniziò a trattarmi il ginocchio malandato. Ebbi paura: me lo torse e ritrose in tutti i modi con una certezza sconvolgente. Il dolore non cessò immediatamente, ci volle ancora qualche tempo, e guarii.
Da scettico mi chiesi se sarebbe passato anche senza quel trattamento, se fosse stato solo un “placebo”, ma dentro di me era scoccata la scintilla: volevo che mi insegnasse questa antica arte. Mi accettò come allievo: non volevo essere di peso e non capivo se veramente gli facesse piacere avermi lì a cercare di rubargli grandi segreti e concetti. Mi interponevo così timidamente tra lui ed i pazienti, quando tutto ad un tratto, indicando un paziente sdraiato sul materassino al centro della stanza, disse: “Forza Maurizio, mettigli a posto tu la schiena”. La frase marcò l’inizio di questo più unico che particolare apprendistato.
In poco tempo una cosa mi divenne chiara: voleva insegnare, non solo a me ma a più persone possibili, in modo da aiutare la gente e non far cadere in oblio quella particolare forma di medicina. Mi vergognai quasi di aver pensato non volesse passarmi le sue conoscenze, o di essere lì a disturbarlo… e tanti altri pensieri mai ben formulati e discerniti che si formano in momenti e situazioni di quel genere.
Scrivendo queste righe… ebbene sì, mi viene da piangere, forte, dal cuore. Non so il perché. O forse sì. Il cuore, lo sa.
Presto mi resi conto che il bagaglio tecnico-culturale del mio maestro era basato non solo sulle tecniche che mi stava trasmettendo. Avevo cercato di raffigurarmi il passaggio dei “nervi da spostare” e le traiettorie da cercare durante le manipolazioni, ma era invece chiaro che c’era poco da ricordare e molto più da sentire. Ciò mi piaceva perché così si deve fare per curare: mettersi in ascolto.
Le settimane passavano ed il Don, come lo chiamavamo affettuosamente, mi permetteva di fare sempre più trattamenti. Ogni volta mi rendevo conto che molte cose non mi erano state dette. O forse, proprio, come dirle?
Il fatto era che il Don si serviva di “un trucco”: per i casi più semplici, mal di schiena o cose simili, il trucco non serviva; per quelli più complessi serviva l’intervento di una ragazza, seduta nella stessa stanza, che scriveva freneticamente parole su fogli di carta. Mi spiegarono che era dotata di scrittura automatica, in grado di darci le soluzioni per i pazienti più difficili.
Cosa…? Ci scriveva le soluzioni…? Un altro atto di fede… beh, sì. A quanto pare il Don si basava molto su questi scritti, che arrivavano dal mondo dei morti per intercedere, e dare una mano, a quello dei vivi. L’atmosfera mi pareva tutt’altro che chiara, ma constatai che c’era del vero negli scritti.
Conoscevo ora “l’arma segreta del Don”, ma mi piaceva più continuare a vederlo come colui che mette a posto schiena, gamba, spalla, il padre che ti aiuta. C’era un aspetto particolare che si definì sempre di più con il tempo: le tecniche usate e la loro corretta applicazione erano importanti, ma… c’era qualcos’altro.
Delusione…? C’erano forse diversi modi ugualmente effettivi di trattare lo stesso paziente…? Sicuramente. Ma qual era allora l’ingrediente comune? Don Leandro emanava AMORE.
Io passai dei momenti bellissimi nella piccola parrocchia di Torrazza Piemonte. L’aver incontrato Don Leandro cambiò la vita a molti pazienti, e questa esperienza cambiò la vita anche a me. Non solo stavo bene, ma mi resi conto che stavo aprendo la mia visuale, stavo capendo non solo con la mente, come avevo fatto fino a quel momento all’Università di Ingegneria, ma con il cuore.
Le persone iniziavano a stare bene da quando arrivavano in parrocchia e si sedevano nel lungo corridoio che fungeva da sala di aspetto. Ce lo riferivano: “Ma come si sta bene qui… io mi sento già meglio… cosa mi sta succedendo, Padre…?”.
Era quindi l’Amore a far funzionare il trattamento. Non erano forse le speciali tecniche… oppure sì? Il sentire, il potersi sintonizzare sicuramente giocavano la loro parte, ma non erano forse anche loro parte dell’amore, del vero amore?
Stavo cambiando: in passato volevo sapere e sapere, non mi bastava mai. Volevo imparare… e adesso ero qui per imparare anche la medicina. Si era verificato un cambio di livello: il conoscere informazioni, avere nuove nozioni sul corpo umano mi interessava sempre, ma avevo intuito che il Don lo faceva per un solo grande, nobile motivo: voleva aiutare gli altri. Riusciva ad amare gli altri, indiscriminatamente, senza pregiudizio alcuno!
Questo faceva Don Leandro.
Ero venuto a conoscenza di uno splendido segreto. Era il segreto più bello del quale sia mai venuto a conoscenza. Valeva la pena di diffonderlo, urlarlo ai quattro venti, scriverlo in tutti i colori nell’arcobaleno e nella terra, ma sarebbe restato un segreto. Era un segreto particolare: non era il Don a non volerlo rivelare, bensì gli altri a non volerlo interiorizzare.